Anticlericalismo ed istruzione scientifica nella pedagogia di Giuseppe Sergi

La prima associazione del Libero Pensiero di cui si ha notizia nasce a Parigi nel marzo del 1848, poco dopo la proclamazione della seconda Repubblica. Gli esponenti del Libero Pensiero francese erano teisti, non necessariamente atei, certamente anticlericali e antiecclessiastici, caratteristiche che si ripeteranno anche nei movimenti del Libero Pensiero che sorgeranno fin dalla metà degli anni Cinquanta dell’Ottocento in Belgio e in Italia, negli anni Settanta in Spagna, Gran Bretagna e Usa e negli anni Ottanta in Germania. Il Libero Pensiero si diffuse quindi sia tra Paesi protestanti che cattolici. Continua a leggere

San Paolo fuori le mura: una storia per immagini

recensione di Luciana Posca

2011.09.11 – Edito dalla Nuova Argos nel 2011. Un libriccino in dimensione tascabile, rilegato da un artigiano – si direbbe – costretto dai suoi stessi mezzi all’attenzione dei particolari per confezionarlo in quella veste editoriale, da disporre poi tra grossi volumi sull’architettura e l’arte.
San Paolo fuori le mura. Guida ai mosaici dall’età paleocristiana a oggi
, di Maria Grazia Branchetti, che pubblica questo lavoro dopo l’inventariazione dell’archivio della Commissione per la riedificazione della basilica di San Paolo, è scritto. Leggi tutto

Edoardo Nesi, il tessile pratese e il ritorno del luddismo

di Luca Tedesco, 20.08.2011

Ironia ed umiltà; queste sono le prime caratteristiche che colpiscono della biografia personale e corale Storia della mia gente (Milano, 2011) di Edoardo Nesi, vincitore dell’ultima edizione dello Strega. Ironia ed umiltà che si rivelano fin dall’inizio, quando, ad esempio, l’A. ammette come, ancora studente, non avesse avuto il coraggio di provare a iscriversi ai semestri invernali ad Harvard, <<quelli duri, quelli veri>> o quando ricorda dell'<<esperienza fallimentare>> alla Facoltà di Giurisprudenza di Firenze (p. 16) .
E non può non suscitare simpatia il Nesi che, nel suo primo viaggio di lavoro in Germania, <<ambiziosamente rivestito dalla giacca Versace a pied-de-poule bianco e nero che la mamma>> gli aveva messo in valigia perché potesse quanto meno sembrare un imprenditore, illudendosi di capire qualcosa di tedesco scambia una trattativa serrata di quattro ore per una chiacchierata sul tempo e sulle abitudini vacanziere dei tedeschi.
Il registro dell’ironia e dell’umiltà permette peraltro all’A. di inserire felicemente la propria vicenda umana e professionale all’interno di quella pratese. Sarebbe stato però forse più utile un maggiore equilibrio tra questi due piani, più interessante avere maggiori dettagli della storia del tessile pratese, delle vicende dei suoi singoli protagonisti, che troppo spesso rimangono sullo sfondo. Leggi tutto

Degenerazione, «adattamento inferiore» e «selezione artificiale» in Giuseppe Sergi

di Luca Tedesco, 19.08.2011

Nata come chiave diagnostica della psichiatria ad opera dell’alienista francese Benedict Augustin Morel1, la categoria della degenerazione, muovendo dal suo originario terreno bio-medico per interessare anche quello della sociologia e della psicologia2, si trasforma in Europa nell’ultimo trentennio del XIX secolo «nella rappresentazione culturalmente più efficace della vera e propria crisi di identità che attanaglia la società occidentale»3. Fenomeno facilmente comprensibile, questo, sol che si presti attenzione a quanto quella categoria si rivelasse straordinariamente funzionale a dare conto degli esiti e delle tensioni socialmente più indesiderate e drammatiche della modernizzazione socio-economica ottocentesca4.
Anche in Italia un semplice sguardo alla mole, davvero impressionante, di saggi ad esso dedicati mostra chiaramente come quello della degenerazione sia stato un tema veramente cruciale nel panorama culturale a cavallo tra Otto e Novecento5, tema alimentato anche dalle preoccupazioni per la tenuta della giovane compagine nazionale.
In questo humus culturale si inserisce la speculazione dell’antropologo Giuseppe Sergi che prende le mosse, come egli stesso ebbe a riconoscere apertis verbis, da quella lombrosiana6. Leggi tutto

Donne del Risorgimento – Rosalia Montmasson ritratta da Salvatore Grita

di Anna Maria Damigella (brano tratto da: Id., Salvatore Grita e il Realismo nella scultura, Lithos, Roma 1998)

Tra le opere realizzate per Francesco Crispi dallo scultore e scrittore Salvatore Grita (Caltagirone 1828 – Roma 1912), l’unica salvatasi dalla dispersione (o distruzione) è il busto-ritratto della prima moglie del grande statista, Rosalia Montmasson. Leggi tutto

Un libro sull’architetto Virginio Vespignani (1808-1882)

Clementina Barucci, Virginio Vespignani. Architetto tra Stato Pontificio e Regno d’Italia, Argos, Roma 2006.

recensione di Luciana Posca

Le vicende professionali e biografiche dell’architetto Virginio Vespignani (1808-1882) sono descritte dall’autrice con il sostegno di una cospicua ricerca archivistica e una rilevante quantità d’immagini d’epoca. Questi documenti sono trattati, dal punto di vista speculativo, con la cura ricostruttiva di un archeologo coscienzioso. C’è dunque in questo lavoro un’esplorazione storica e un’esposizione del “modello Pio IX”. Ne viene fuori un’appassionata ricerca scientifica dove la passione è sottintesa nell’abbondanza delle fonti, come nelle chiese di Vespignani nella ricchezza delle decorazioni. È così che l’autrice ci dà l’opportunità di entrare, con dovizia di particolari, nella realtà artistica, culturale e istituzionale della Roma Pontificia. Leggi tutto

“La testa e il cuore a mare, i piedi sulle Alpi”

Vittorio Tino, Il libero-scambismo lombardo-piemontese smantellò i fortilizi economici siciliani, “Quotidiano di Sicilia”, 9 gennaio 2010 [fonte]

Dal 1861 in poi l’annichilimento della cantieristica napoletana e palermitana a vantaggio di quella ligure. Il corso forzoso della lira permise alla Banca Nazionale di rastrellare le riserve d’oro del Sud.

Seguiva in lenta ascesa l’attività cantieristica ed armatoriale di Palermo (i Florio) e di Riposto (industriali vitivinicoli), eccezione positiva di un sistema portuale che fu (fu?) il tallone d’Achille di questa struttura economica ben piantata ed orientata all’esportazione. E qui cade in taglio una lunga citazione da Denis Mack Smith: “Siracusa che avrebbe potuto essere uno dei migliori porti del Mediterraneo centrale, era in genere deserta…La meravigliosa e profonda baia di Augusta… non vedeva quasi mai una nave … Pozzallo, il porto di Modica non aveva strada … A Sciacca, il porto più importante per il commercio del grano, non c’era ancoraggio se non molto al largo, nessun molo di carico e nemmeno una strada che scendesse al mare … Girgenti, il punto d’imbarco del minerale di zolfo, [non era riuscita a] costruire un frangiflutti [sia pure] con le rovine del tempio greco di Giove [per cui] le operazioni di carico erano estremamente lente e dispendiose, ed erano necessari quattrocento scaricatori anche per una piccola nave, mentre molti ergastolani lavoravano continuamente per mantenere libero il porto dei banchi di sabbia”. E così a Mazara, e così pure a Marsala con il porto ostruito di relitti per ragioni difensive dagli Spagnoli del sedicesimo secolo. E così anche a Catania, con il suo porto-gebbia, ribadito nella sua “nanità”, dal Paternò Biscari intorno al 1770, ad un secolo dall’effusione lavica del 1669 che cambiò l’orografia urbana.
Per dirla con Roberto Martucci (L’invenzione dell’Italia unita) che assume la parabola politica di Ippolito Nievo quale cifra simbolica del processo unitario, il nostro è stato un “Risorgimento senza eroi”, di grande corruzione (attraverso gli Inglesi che con la mediazione turca affogarono di piastre d’oro la Marina borbonica). Il Nievo all’alba del 5 marzo 1861 di ritorno da Palermo affondò con il piroscafo a vapore Ercole al largo di Napoli.
Scomparvero altre ottanta persone assieme alle casse documentarie del “Rendiconto” amministrativo delle “imprese” dei Mille (1087: recita la storiografia puntigliosa) e dell’Esercito meridionale.
Nulla fu più trovato. Emerse soltanto uno Stato che smantellò i fortilizi economici meridionali e siciliani, adottando nel 1861 il libero-scambismo dell’agricoltura lombardo-piemontese nefasto per quei primi germogli di industria protetta borbonica, imponendo il corso forzoso della lira che permise alla Banca Nazionale di rastrellare le riserve d’oro del Sud, più tasse e meno commesse industriali per il Sud, annichilimento della cantieristica napoletana e palermitana per quella ligure, e con la virata del protezionismo industriale del 1887 annientò le colture intensive (agrumi e viti) che avevano eroso per tutto l’Ottocento grande spazio alla cerealicoltura tradizionale.
La grande depressione venticinquennale (1870-1895) completò l’opera di mortificazione dell’economia siciliana, per nulla confortata dallo Stato unitario.
Ci siamo ancora dentro, dentro a questo sconforto, a quella disattenzione di ingratitudine.
L’Italia siamo noi che popoliamo la lunga penisola meridionale. Il resto è alpigiano. Ma è il resto che comanda. Doveva avvenire il contrario: Ammiragli del Mediterraneo, la testa e il cuore a mare, i piedi sulle Alpi.

Arance e zolfo, pilastri dell’economia siciliana preunitaria

Vittorio Tino, La Sicilia pre-unitaria, terra di eccellenze, “Quotidiano di Sicilia”, 9 gennaio 2010 [fonte]

Il Regno di Napoli nel 1859 era il più rinomato in Italia per la sua solidità finanziaria, con un debito molto basso. La ricca produzione di zolfo, destinata all’esportazione, procurava buona valuta straniera

In tempi in cui ci si accinge a celebrare il centenario dell’Unità (17 marzo 2011) bisognerebbe rileggere Francesco Saverio Nitti (1868-1953) dell’inizio del secolo scorso e vedere di cambiare l’asse attorno al quale ruota il Paese di questi, di questo secolo: “è certo che il Regno di Napoli era nel 1859 non solo il più reputato in Italia per la sua solidità finanziaria… ma anche quello che, fra i maggiori Stati, si trovava in migliori condizioni. Scarso il debito; le imposte non gravose e bene armonizzate; semplicità grande in tutti i servizi fiscali e nella Tesoreria dello Stato. Era proprio il contrario del Regno di Sardegna, ove le imposte avevano raggiunto limiti elevatissimi; dove il regime fiscale rappresentava una serie di sovrapposizioni continue fatte in gran parte senza criterio, con un debito pubblico enorme, e a cui pendeva sul capo lo spettro del fallimento”.
Altri aspetti negativi affliggevano il Meridione dei Borbone, ai margini della rete di relazioni europee tessuta al centro da Inghilterra e Francia. Ma era una marginalità viva che tentava, tendeva a farsi centro.
Il carbone settecentesco inglese come lo zolfo ottocentesco siciliano, la Sicilia come il Northumerland o il Cumberland o la Contea di Durham, zone storicamente marginali, insediamenti di aristocrazie depresse: da quei margini sortì la contemporaneità, da quelli inglesi e da quelli siciliani.
La Sicilia preunitaria ebbe i suoi fortini di eccellenza per una produzione d’esportazione che procurava buona valuta straniera. Anzi tutto lo zolfo che sul desco della prima industrializzazione fu il piatto di portata che si disputava la leadership con il cotone indiano. Se questo fu detto the King (o il Re Sole) del modo di produzione industriale planetario, lo zolfo siciliano meritò il titolo di Gran Ciambellano, Lord Chamberlain, il cardinale Richelieu. Lo zolfo è stato rappresentato nei quadri mentali popolari come il metallo del Diavolo, una materia prima diabolica; eppure ha conosciuto soltanto encomi come se fosse opera divina, nonostante la tragedia dello sfruttamento minorile dei carusi e la devastazione ambientale dei fumi dei calcaroni.
Tra Caltanissetta e Catania nel 1839, l’anno dopo la crisi dei rapporti tra Regno di Napoli e Gran Bretagna, una quasi-guerra, si contavano 407 miniere in tutta la Sicilia. Cresceranno ancora di numero, nonostante le ricorrenti sovrapproduzioni.
L’epopea dello zolfo (e dello zolfo nisseno) – che tra alti e bassi si concluse con l’ultima vampata della guerra di Corea del 1950 e, quindi, con la costituzione dell’Ente minerario Siciliano della legge regionale dell’11 gennaio 1963 – origina nel 1787, anno del processo Leblanc mediante cui si otteneva da un acido di zolfo, quello solforico, messo a reagire con il sale comune, la soda utilizzata nell’attività dell’industria tessile come sbiancante e colorante.

– Persino in America. In tutta Europa si consumavano agrumi di Sicilia
E c’era l’agrume amaro, importato decorativamente dai conquistatori Arabi e nella versione dolce, ‘u puttuallo, dal Portogallo (e da qui in Sicilia) dove si imparò a conoscere sin dalla fine del XVI secolo. Consumato in quantità gigantesche dalla ottocentesca Royal Navy, ebbe la funzione di scorta della potenza di fuoco dei cannoni alle fiancate del naviglio di Sua Maestà Britannica. Lo scorbuto per chi andava per mare era molto più dannoso dell’imperialismo di Napoleone e della flotta francese. Ne decimava più che le palle di fuoco del naviglio napoleonico. Con le cannonate inglesi …. dell’arancia siciliana si mandò in frantumi la grandeur di Napoleone.
Nel 1818 un brigantino palermitano approdò in America a scaricare succo di limone, cassette di arance, zolfo. Germania, Austria, Russia, Olanda, Inghilterra, gli Stati italiani erano grandi consumatori di essenze e di agro di limone siciliani. I derivati agrumari, l’acido citrico innanzitutto, fecero di Messina e di Palermo, la Conca d’oro, due grandi centri di esportazione internazionale, come Catania lo fu per lo zolfo. E sono agrumi che rianimarono e rivalutarono le terre non irrigue a coltura intensiva, in terreni trasformati, i più redditizi d’Europa. Poi verranno gli altri agrumi, anche americani, quelli della Florida.

– Le industrie chimiche e tessili nascono dallo zolfo siciliano
L’industria chimica e quella tessile, internazionali, volàno di tutto il processo di industrializzazione che ha dato il profilo irreversibile alla contemporaneità, nascono dallo zolfo siciliano.
Fu un padre nostro, lo zolfo, di vita effimera, di una consistenza – quanto a durata e a struttura progettuale – analoga a quella dell’isola Ferdinandea che sbocciò dal mare antistante Sciacca nel luglio del 1831 e si inabissò poco dopo. Fu rimandato di sette anni lo scontro frontale tra il Regno di Napoli e Sua Maestà Britannica in disputa per la proprietà dell’isola, con la guerra minacciata del 1838 (e che non ci fu, perché realmente non voluta da nessuno delle potenze europee in riassetto antirivoluzionario dopo i moti del ‘30).
Se Caltanissetta è stata la capitale dello zolfo, Catania è stata città dello zolfo; mentre il territorio nisseno diventava un gruviera di miniere, l’affaccio a mare etneo iniziava a cingersi di ciminiere. L’apparato industriale catanese sul finire degli anni Ottanta dell’800 fu trainato dallo zolfo proveniente dai comuni di Assoro, Centuripe, Leonforte, Ramacca, Regalbuto, Raddusa, Agira. Tutti comuni, tranne due, che comporranno, assieme ad altri territori sottratti a Caltanissetta, la provincia di Enna, costituita nel dicembre del 1926. Poi verrà lo zolfo americano che annienterà gradualmente il monopolio di quello siciliano.

Popolarismo e nasismo in Sicilia

Michele Vaina, Popolarismo e nasismo in Sicilia, Firenze, Casa Editrice Italiana, 1911.

Informazioni aggiuntive: La Rinascita del Libro – Casa Editrice Italiana di A. Quattrini. Legatura brossura. in copertina la denominazione della collana: “Quaderni della Voce raccolti da Giuseppe Prezzolini”. Prima edizione. Formato in centrimetri 19,5×14,2 183 (1)pagine.

Il testo è disponibile in copia fotografica digitale presso il sito della Fondazione Gramsci a questo indirizzo.

Citazione dal libro:
“Come si formano il feticismo e la popolarità? Facile a spiegarsi per la Sicilia e il Mezzogiorno. Per lo più sono avvocati quelli che riescono. E riescono formando vaste clientele elettorali, dapprima cominciando a disporre di un certo numero di elettori, i quali votano per chi dicolno loro. Ubbidiscono perché ricevono dei favori. Per molti è necessaria una persona abile, intelligente, intraprendente. Ci vuole uno che, allorché si ha una pratica col municipio, con la questura, con l’agente delle tasse, col giudice istruttore se ne occupi: scriva la raccomandazione al sindaco e all’assessore, ché, senza la raccomandazione lasciano dormire tutto; che procuri il porto d’armi o faccia cessare di fatto la sorveglianza speciale; che ottenga una diminuzione della ricchezza mobile ingiustamente applicata. Ci vuole uno, insomma, che si muova, che distribuisca favori. Così si costituisce un partito, al quale si uniscono tutti i malcontenti, gli speculatori insoddisfatti, gli appaltatori non appagati, gli aspiranti ad impieghi, perché, sebbene i posti nei municipi si moltiplichino, sono sempre in numero limitato, mentre le richieste sono infinite” (pp. 17-18).

Sulla questione degli intellettuali

Costanzo Preve, Sulla questione degli intellettuali, “Indipendenza” n. 12 – giugno/luglio 2002. [fonte]

SULLA QUESTIONE DEGLI INTELLETTUALI.

NOTE PER LA DISCUSSIONE

In questo inizio di 2002 si sono visti alcuni episodi di un certo ritorno di una sorta di protagonismo degli intellettuali, sia a livello storicamente serio (la denuncia della globalizzazione, della guerra e dell’arroganza imperiale americana da parte di Noam Chomsky, José Saramago ed altri), sia a livello storicamente e politicamente grottesco (Nanni Moretti, girotondari e anti-berlusconiani, ecc.). È dunque opportuno riproporre una riflessione più generale sul fenomeno degli intellettuali. Cercherò di farlo nei paragrafi seguenti. Nei primi tre darò la mia personale interpretazione del problema generale degli intellettuali (nascita del fenomeno nell’Illuminismo settecentesco francese e conseguente mito infondato della loro presunta organicità alla borghesia, ripresa marxista del mito dell’intellettuale organico al proletariato sulla base dell’incantesimo con l’analogia storica della borghesia e conseguente fallimento partitico integrale di questa concezione, ed infine concezione dell’intellettuale come coscienza dell’intera umanità). Questi tre paragrafi sono in senso assoluto i più importanti, e consiglio al lettore di prestarvi la maggiore attenzione possibile. Nel quarto paragrafo parlerò del rapporto fra intellettuali e denuncia della globalizzazione (e cioè degli intellettuali detti no-global). Nel quinto indagherò il tema del passaggio degli intellettuali di sinistra dall’organicità al vecchio PCI al nuovo anti-berlusconismo come nuova piattaforma identitaria di gruppo. Nel sesto ed ultimo, infine, esporrò in sintesi la mia personale visione del problema degli intellettuali oggi.

1. Gli intellettuali, l’Illuminismo ed il mito della presunta “organicità” alla Borghesia.

Ogni discussione sulla questione degli intellettuali è resa preliminarmente confusa e difficile dal fatto che vengono inseriti fra gli intellettuali (che sono invece un gruppo sociale ben preciso, tipico della modernità capitalistica e solo di essa, a riconoscimento sociale e politico specifico) tutti coloro che in varia misura non esercitano un lavoro manuale e che fanno creativamente uso del proprio intelletto, e questo inserimento viene esteso a tutte le società umane della storia, a partire dall’antico Egitto. In questo modo diventano intellettuali Socrate e Tucidide, Lucrezio e Cicerone, Abelardo e Dante, Spinoza e Cartesio, eccetera. In questa estensione c’è indubbiamente qualcosa di sensato e legittimo, perché indubbiamente i gruppi intellettuali sono esistiti anche nelle società precapitalistiche. Ma se vogliamo che una discussione sugli intellettuali giunga ad una conclusione razionale, dobbiamo limitarla alla formazione di un’opinione pubblica storicamente legata alla costituzione di una società borghese-capitalistica. E questo non avviene prima del Settecento europeo in Inghilterra, Francia e Germania.

Il dibattito culturale nelle società schiavistiche, feudali e signorili esisteva ed era spesso molto profondo e vivace, ma non dava strutturalmente luogo ad una opinione pubblica. L’opinione pubblica è qualcosa di connesso in modo organico con la costituzione della borghesia come classe dominante del modo di produzione capitalistico, perché la sua funzione specifica è quella di presentare come frutto di una razionalità etico-politica universale (giusnaturalismo, contrattualismo, utilitarismo, mercato capitalistico, ecc.) ciò che è invece legato in modo particolaristico alla propria identità ed ai propri interessi storici. Questa funzione, che potremo definire sommariamente come ideologica, non è però l’unica funzione della cosiddetta opinione pubblica (che è ovviamente legata al giornalismo politico, alla redazione di saggi economici e filosofici in lingua nazionale e non più in latino ed infine alla propagazione dell’idea di progresso storico e scientifico come nuova religione laica della borghesia capitalistica). L’opinione pubblica è infatti la duplicazione simbolica del mercato nel mondo della produzione di idee, ed è dunque pluralistica e concorrenziale per sua stessa intima essenza, e non certo per grazia benevola delle oligarchie dominanti. Questa natura pluralistica, concorrenziale e mercantile dell’opinione pubblica borghese non è generalmente colta dai marxisti, che amano invece inventarsi una sorta di comando culturale unificato del Capitale nel mondo dell’ideologia, come se l’opinione pubblica fosse una sorta di partito totalitario borghese-capitalistico. Ma così non è, e questa concezione errata non fa che duplicare la sua concezione errata gemella, quella di un unico comando capitalistico unificato e pianificatore (una concezione tipica del marxismo economicistico, dell’operaismo italiano e del suo ultimo esponente, Toni Negri).

L’Illuminismo europeo settecentesco è dunque il luogo storico di nascita e di costituzione dei gruppi intellettuali moderni, strutturalmente plurali e concorrenziali nel loro tentativo di egemonizzare l’opinione pubblica, questa duplicazione simbolica del mercato. Non bisogna però pensare che essi facessero parte di una sorta di Partito Culturale della Borghesia, retto dalla mano invisibile dell’affermazione del capitalismo. In proposito, basta riflettere sui principali intellettuali illuministi, e vedremo che quelli veramente organici alla borghesia capitalistica sono pochissimi (e tenderei a limitarmi all’inglese Locke, allo scozzese Hume ed al francese Condorcet). I tedeschi Lessing ed Herder hanno una concezione messianica della storia, che certo prefigura molto più il comunismo del capitalismo. Voltaire offre certamente al pensiero laico ed anticlericale molti strumenti, ma nello stesso tempo sostiene il dispotismo illuminato. Rousseau è assolutamente antiborghese. Lamettrie, Diderot e d’Holbach propugnano l’ateismo materialistico, una merce ideologica che la borghesia capitalistica ha sempre rifiutato, avendo invece sempre fiutato il nesso fra la pratica tradizionale del culto cristiano e la subordinazione delle plebi all’ordine costituito.

Questo pluralismo estremo di posizioni, che rende impossibile un giudizio sommario ed affrettato degli intellettuali settecenteschi come di semplice strumento ideologico unificato della borghesia capitalistica, è dovuto però anche e soprattutto all’inesistenza di un apparato mediatico, giornalistico e televisivo, in grado di gestire in modo manipolato il pluralismo. Oggi le cose stanno diversamente, ed il mutamento è radicale (come la scuola di Francoforte ed il giovane Habermas a suo tempo capirono bene). Per poter capire però questo mutamento storico qualitativo non si deve però cadere nella trappola di pensare lo spazio culturale illuministico come lo spazio manipolato di un Partito Ideologico della Borghesia. Esso non è mai esistito, se non nella mente di gran parte del marxismo storico novecentesco.

2. Il mito marxista dell’intellettuale organico del proletariato, figlio dell’incantesimo dell’analogia storica.

La teoria del cosiddetto intellettuale organico è generalmente fatta risalire al solo Antonio Gramsci, che ne ha parlato molto in modo esplicito polemizzando con Benedetto Croce. Ma questo è un errore. La teoria dell’intellettuale organico è in realtà la teoria assolutamente dominante, per non dire l’unica, dell’intero comunismo storico novecentesco.

Io dò un giudizio molto positivo della figura intellettuale e morale di Antonio Gramsci, anche se ritengo la maggior parte delle sue posizioni assolutamente datate (a differenza delle posizioni di Marx o di Lenin, che ritengo invece in larga parte attuali). Respingo invece decisamente la sua teoria dell’intellettuale organico, che pure Gramsci ha saputo esporre in modo molto più convincente ed intelligente della stragrande maggioranza degli altri marxisti del suo tempo, penosamente economicisti e meccanicisti, per un insieme di ragioni, che riassumerò qui in cinque punti.

In primo luogo, la teoria dell’intellettuale organico finisce con il ridurre la produzione scientifica, filosofica e letteraria alla sola produzione ideologica. Ad esempio, è vero che Aristotele ha dato una spiegazione naturalistica della schiavitù (diventando così un intellettuale organico della produzione schiavistica), ma tutto ciò è stato solo una piccola parte del suo pensiero. La sua antropologia sociale e politica (mille volte migliore di quella di Hobbes) è per esempio perfettamente compatibile con il comunismo. Per fare un secondo esempio, Spinoza ed Hegel hanno certamente detto molte cose organiche alla classe borghese, ma il tessuto concettuale delle loro filosofie va ben oltre questa presunta organicità borghese, ed è anzi una vera e propria grammatica concettuale anticapitalistica. Gli esempi potrebbero essere moltiplicati. È invece importante capire che ogni teoria dell’organicità dei gruppi intellettuali con una classe, pur cogliendo alcuni aspetti reali ma superficiali, è fortemente riduzionistica, perché riduce ogni produzione culturale al suo solo aspetto ideologico (pur presente).

In secondo luogo, come si è detto prima, la teoria dell’intellettuale organico (si intende, organico al proletariato, alla classe operaia ed al suo partito e sindacato) è concettualmente costruita sulla base dell’incantesimo dell’analogia con la rivoluzione borghese (in particolare quella francese del 1789), con la conseguente trasformazione degli intellettuali illuministi in partito culturale unificato della borghesia capitalistica. Ma appunto così non è. Si ha così di fatto la riduzione dei gruppi intellettuali ad uno schieramento, ad un fronte, ad una sorta di cavalleria leggera dell’esercito operaio e proletario. La dialettica di questa errata concezione inizia da un polo francamente comico (l’intellettuale che veste una divisa proletaria e si proletarizza simbolicamente inneggiando alla capacità intermodale della classe operaia) per finire in un polo francamente tragico (l’avallo e la giustificazione dei peggiori crimini delle burocrazie politiche).

In terzo luogo, la teoria dell’intellettuale organico dimentica semplicemente un piccolo particolare, e cioè che per il Marx maturo redattore del Capitale la classe rivoluzionaria intermodale (capitalismo-comunismo) non è affatto la classe povera, proletaria e operaia, ma è invece il lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, alleato con le potenze mentali della produzione capitalistica, da Marx definita con il termine inglese di general intellect. In questa concezione, che è filologicamente quella di Marx, non c’è proprio lo spazio per un gruppo sociale chiamato degli intellettuali organici, dal momento che la potenza intellettuale del lavoratore cooperativo associato è direttamente concepita come il fattore storico decisivo e strategico della trasformazione. Qui sta, e lo dico del tutto incidentalmente, l’elemento razionale della scuola del cosiddetto general intellect (Toni Negri, Augusto Illuminati, eccetera), che però è un’alternativa soltanto illusoria alla vecchia scuola della centralità operaia di fabbrica, dal momento che dà per scontato quello che è invece tutto da dimostrare (ed in realtà indimostrabile), e cioè che si stia compiendo a livello imperiale globale una socializzazione delle forze produttive di tipo potenzialmente eversivo, rivoluzionario, comunitario e comunista. La scuola del vecchio operaismo di fabbrica e la scuola del general intellect sono dunque due facce della stessa lettura illusoria e mistificatoria delle dinamiche dell’attuale fase storica (che è ciclica e non teleologica) della produzione capitalistica.

In quarto luogo, la teoria dell’intellettuale organico, che fa riferimento a parole all’organicità con la classe rivoluzionaria intermodale (e cioè la classe operaia e proletaria del marxismo politico post-marxiano), è poi di fatto sempre costretta a far riferimento praticamente alle espressioni politiche organizzativamente dominanti in questa di questa stessa classe. Si è dunque sempre organici alla Classe soltanto attraverso l’organicità al Partito inteso gramscianamente come Moderno Principe. Una simile teoria non ha nulla a che fare con Marx, ma ricorda piuttosto Agostino d’Ippona e la sua teoria per cui, per essere organici alla rivelazione cristiana, bisognava essere organici alla Città di Dio, e cioè alla chiesa organizzata con le sue gerarchie e la sua dottrina centralizzata obbligatoria.

In quinto luogo, e per concludere, la teoria dell’intellettuale organico mette di fatto l’accento non sulla capacità del singolo studioso di portare un contributo originale ed irripetibile alla scoperta scientifica, all’innovazione filosofica e alla creatività artistica, ma sulla sua adesione gregaria alle iniziative della Classe-Partito (e di fatto solo del partito, e cioè dei suoi gruppi dirigenti burocratizzati). È in questo modo definito intellettuale non colui che crea, ma colui che firma petizioni politiche, e che oggi girotonda salmodiando frasi anti-berlusconiane.

Per queste cinque ragioni, e per altre che qui non discuto per ragioni di spazio, prima consegnamo agli archivi la teoria dell’intellettuale organico e prima potremo ricominciare a porre creativamente la questione.

3. La concezione dell’intellettuale libero da legami classistici al servizio dell’intera umanità.

Alla concezione marxista novecentesca dell’intellettuale come necessariamente organico, lo voglia o no, ne sia consapevole o no, ad una delle due classi sociali fondamentali del modo di produzione capitalistico (Borghesia e Proletariato), si è storicamente contrapposta un’altra teoria, spesso ingenerosamente etichettata come borghese o piccolo-borghese, che vede l’intellettuale come figura libera da legami (Mannheim), funzionario dell’umanità (Husserl), testimone del tempo e sentinella della verità. Dico subito che, pur nella sua unilateralità, questa teoria è pur sempre migliore della precedente, in quanto meno economicistica, riduzionistica, ideologica e soprattutto partitico-burocratica. Nel prossimo paragrafo, dedicato al cosiddetto movimento no-global, farò rilevare che questa concezione è esattamente quella prevalente oggi (Noam Chomsky, José Saramago, eccetera). Non ho dunque obiezioni di principio verso questa vecchia concezione, molto più nobile della manipolazione burocratica precedente, che preferiva il firmaiolo conformista ed intruppato all’innovatore scientifico, filosofico ed artistico.

Eppure anche questa teoria non è del tutto convincente. E questo, si badi bene, non certo perché alcuni dei suoi sostenitori giungano poi all’errata conclusione per cui le classi sociali e lo sfruttamento capitalistico non esistono, ed esiste soltanto la società civile dei cittadini titolari della comunicazione liberaldemocratica. Questa resta una sciocchezza (in malafede o in buonafede, poco importa) di alcuni sciocchi, ma non tocca di per sé la concezione degli intellettuali come gruppo indipendente che si relaziona esclusivamente con la scoperta scientifica, con l’innovazione filosofica e con la creatività scientifica. La ragione fondamentale è un’altra, ed è legata al nuovo ruolo delle oligarchie mediatiche (giornalistiche, ma oggi prevalentemente televisive), un ruolo che non esisteva storicamente ancora al tempo delle due concezioni rivali dell’intellettuale organico (Gramsci) e dell’intellettuale funzionario dell’umanità (Husserl). Si tratta di un punto decisivo, e la sua comprensione è assolutamente essenziale.

Da alcuni decenni ormai, e con un’accelerazione spaventosa dopo la caduta del comunismo storico novecentesco (1917-1991), le oligarchie mediatiche (sia giornalistico-cartacee che giornalistico-televisive) hanno proceduto ad una integrazione progressiva con altre oligarchie culturali, come i gruppi accademici universitari ed i gruppi che decidono le strategie di pubblicazione editoriale. Questi tre settori dell’oligarchia culturale (mediatica, universitaria ed editoriale) sono a loro volta sempre più integrati con le oligarchie economiche, industriali e finanziarie, e questo dà luogo a mio avviso ad una forma inedita di capitalismo, un vero e proprio capitalismo totalitario. Parlando di capitalismo totalitario, tuttavia, bisogna capire bene di che cosa stiamo parlando, perché questo nuovo totalitarismo flessibile, pluralistico e manipolato non ha letteralmente nulla a che vedere con il fascismo o con il comunismo staliniano. La strategia culturale del vecchio comunismo (imitato su questo punto dal fascismo) era quello che potremmo definire con una sigla FIO (Flusso Ideologico Omogeneo), in cui si garantiva giornalmente un flusso costante di informazioni e commenti resi preventivamente omogenei alla direzione ideologica complessiva. Si trattava di un totalitarismo culturale estremamente debole e dilettantesco, darwinianamente distrutto nella sua competizione con il ben più sofisticato sistema culturale capitalistico, che potremo definire con una sigla CPA (Campo Pluralistico Amministrato). In termini darwiniani, che sono poi in realtà i soli termini storicamente adatti a descrivere le moderne forme di totalitarismo, la vittoria del CPA (campo pluralistico amministrato) sul FIO (flusso ideologico omogeneo) è sicura e senza appello. Il flusso ideologico omogeneo (tipico della politica culturale del comunismo storico novecentesco) produce dialetticamente una concentrazione unitaria dell’opposizione contro di esso, appunto perché la sua identità unitaria ed omogenea provoca per necessario contrasto una simmetrica identità unitaria ed omogenea di opposizione globale. Tutto questo non capita invece assolutamente con il campo pluralistico amministrato.

Il campo pluralistico amministrato, cioè il pluralismo manipolato e reso compatibile con le strategie generali di riproduzione del sistema complessivo, funziona da alcuni decenni negli Stati Uniti d’America, il centro militare dell’impero. Noam Chomsky lo ha descritto nei dettagli, e non c’è veramente molto da aggiungere alle sue analisi, che si possono però sempre utilmente integrare con le osservazioni di Mattelart sulla società dell’informazione, sulle vecchie ma sempre attuali considerazioni di Adorno sull’industria culturale, sulle geniali intuizioni di Debord sulla società dello spettacolo, e persino sulle strampalate esagerazioni di Baudrillard sulla sostituzione del reale con il virtuale.

In questa sede, ci interessa il rapporto fra le due strategie totalitarie, il flusso ideologico omogeneo ed il campo pluralistico amministrato, e la questione degli intellettuali. Entrambe le strategie distruggono a mio avviso non certo la natura umana e la libertà di innovazione scientifica, filosofica ed artistica (le due uniche e sole componenti antropologiche da cui possiamo per il momento sperare un’inversione di tendenza, in mancanza di qualsivoglia garanzia sociologica o tecnologica), ma sicuramente però ogni autonomia degli intellettuali come gruppo sociale specifico e definito. Alcuni decenni di flusso ideologico omogeneo polarizzano la stragrande maggioranza del lavoro intellettuale nel campo antagonistico, data la pittoresca e disperante incapacità egemonica delle burocrazie politiche, in una prima fase ideologizzate ed in una seconda fase deideologizzate (le due fasi sono dialetticamente interconnesse). Il flusso ideologico omogeneo è un vicolo cieco dell’evoluzione sociale, ed  è un vero e proprio giurassico della storia della cultura. A differenza del flusso ideologico omogeneo, il campo pluralista amministrato, infinitamente più adatto alla manipolazione sociale, così come lo è lo homo sapiens rispetto alla tigre dai denti a sciabola, riesce ad investire come gruppi intellettuali legittimati al dibattito soltanto coloro che decide sovranamente lui. Gli intellettuali, dunque, diventano un gruppo sociale che non è assolutamente più legittimato dalla scoperta scientifica, dall’innovazione filosofica e dalla creatività artistica, ma viene legittimato esclusivamente dalla sanzione mediatica. Gianfranco La Grassa non è un intellettuale, perché sfugge alla dicotomia preventiva d’investitura sinistra/destra, mentre Sabrina Ferilli che testimonia contro Berlusconi con alcune banalità in romanesco lo è. Questa è la realtà, che bisogna prima di tutto capire, se la si vuole per caso mutare.

4. Gli intellettuali e la denuncia degli effetti umani e sociali della cosiddetta globalizzazione.

Fra i due poli dell’intellettuale organico di Gramsci e dell’intellettuale come funzionario spirituale dell’umanità di Husserl ci sta, come è noto, una posizione intermedia, ben rappresentata nel Novecento dal pensiero e dalla pratica di Jean-Paul Sartre. Si tratta dell’intellettuale impegnato (engagé), che senza sottoporsi ad alcun vincolo e ad alcuna censura di partito sceglie liberamente di impegnarsi a fianco della parte più debole, il proletariato nazionale ed internazionale. Sul piano teorico, si tratta di una forma di marxismo di tipo esistenzialistico, che non a caso rifiuta quasi sempre la dialettica della natura, la concezione meccanicistica e/o teleologica della storia ed il diritto degli apparati politico-burocratici di partito di dire l’ultima parola sulla cosiddetta interpretazione scientifica del marxismo. Sul piano pratico, si tratta di una forma di solidarietà con tutti coloro che, individualmente o in modo organizzato, resistono al capitalismo, al colonialismo e all’imperialismo. Con molte contraddizioni, che erano poi quelle della sua generazione e degli intellettuali europei, Sartre ha saputo interpretare bene questa figura. Non si può dimenticare che, da un lato, egli consentiva agli algerini la lotta armata contro i francesi e simpatizzava per loro, mentre non consentiva ai palestinesi un analogo comportamento contro i sionisti israeliani. Ma qui funzionava l’autocensura della cultura di sinistra, allora ed oggi, per cui si era introiettata la (falsa) concezione per cui ogni critica radicale e strategica (e non solo tattica e congiunturale) al sionismo fosse una concessione indiretta all’antisemitismo.

Oggi la critica alla globalizzazione sembra riportare in primo piano la funzione del grande intellettuale impegnato ed indipendente. Penso soprattutto all’americano Noam Chomsky e al portoghese José Saramago, ma i nomi potrebbero essere molti. Il cosiddetto movimento anti-globalizzazione utilizza questi grandi nomi, ma in proposito, sulla base di quanto detto nei paragrafi precedenti, bisogna fare almeno due ordini di osservazioni.

In primo luogo, il fatto che il movimento anti-globalizzazione abbia una leadership politica informale, e non formale come quella dei vecchi partiti comunisti, non cambia per nulla i termini essenziali del rapporto di subalternità che gli intellettuali intrattengono con i politici. Il caso di Porto Alegre del febbraio 2002 è in proposito esemplare. La cucina politica e mediatica è stata gestita ferreamente da un’alleanza informale fra l’organizzazione francese Attac e l’ala socialdemocratica del partito del lavoro brasiliano, che hanno imposto la triplice linea della riduzione dell’anticapitalismo all’antiliberismo, dell’accettazione di una “buona globalizzazione solidale alternativa” rispetto al rifiuto di essa, ed infine dell’esclusione delle forze in vario modo neocomuniste e di lotta armata. Sulla base di questo vecchio primato della linea politica, su cui non si è mollato di un centimetro, si è poi data carta bianca alle denunce profetiche di Chomsky e di Saramago, e si è lasciato che il folklore-casino di base potesse pluralisticamente autorappresentarsi in centinaia di seminari, canti, balli, chitarre, sambe e gioiosa confusione. Uno scenario classico. Lo scenario più vecchio del mondo.

In secondo luogo, quanto ho detto nel paragrafo precedente sulla incorporazione dell’azione intellettuale nell’apparato delle oligarchie mediatiche, che scelgono chi è intellettuale e chi no (come il borgomastro antisemita di Vienna sceglieva chi era ebreo e chi no), si applica ovviamente anche al movimento anti-globalizzazione, la cui immagine è ferreamente gestita da questo stesso apparato mediatico. Primo, vengono esclusi e marginalizzati tutti coloro che dicono che c’è ancora l’imperialismo, e non solo la globalizzazione senza imperialismo. Secondo, vengono esclusi e marginalizzati tutti coloro che dicono che bisogna appoggiare gli stati nazionali e le identità nazionalitarie contro le ingerenze imperialistiche, ed anzi si insiste sul fatto che i leader nazionalisti sono tutti dittatori alla Saddam Hussein, Mugabe e Chavez. Terzo, si elimina tutto ciò che l’oligarchia intellettuale consentita, legata ai centri di potere mediatico (e quindi capitalistico-finanziario), considera non politicamente corretto, e cioè che il sionismo è una forma di razzismo oppure che in certi casi la lotta armata può essere l’ultima risorsa legittima per la resistenza.

Ho fatto tre esempi, ma avrei potuto farne altri più in dettaglio. Ciò che conta, tuttavia, è capire che anche e soprattutto nel cosiddetto movimento anti-globalizzazione il meccanismo di dominio e di incorporazione sui messaggi intellettuali è tuttora in funzione, ed ogni ottimismo prematuro è assolutamente infondato. Ciò appare ancora più chiaro se si considera brevemente la provinciale situazione italiana di questo 2002.

5. Il protagonismo anti-berlusconiano degli intellettuali italiani della primavera del 2002.

Per capire subito la natura del cosiddetto movimento dei girotondi, sorto nella prima metà del 2002 in Italia, è bene prestare attenzione ad uno scambio di opinioni fra il regista Nanni Moretti ed il politico Massimo D’Alema. Moretti investe il cinico baffetto con alcune critiche, ma non lo accusa certamente di avere consentito e partecipato alla sporca guerra del Kosovo del 1999 (che per Moretti e gli altri pagliacci del cosiddetto “interventismo umanitario” era probabilmente giusta, essendosi bevute tutte le menzogne sul genocidio pianificato dal dittatore pazzo Milosevic), ma lo accusa di aver imbarcato al governo Mastella. Al senso estetico del narcisista romano, evidentemente, ripugna non la guerra imperialista, ma la figura alla Pulcinella del politicante trasformista meridionale.

Questo è il livello culturale del movimento dei girotondi, con l’ossessivo richiamo al cosiddetto nuovo fascismo televisivo di Berlusconi. Io non contesto certamente il diritto dell’opposizione parlamentare dell’Ulivo (e cioè del PCI-PDS-DS più la Margherita più i Verdi più le formazioni minori), rialleata di fatto con Rifondazione (che per sua natura può rompere solo tatticamente, ma non strategicamente, questo cordone ombelicale di sinistra), di svolgere una opposizione extra-parlamentare basata sui girotondari del ceto medio colto, delle organizzazioni sindacali e della corporazione dei magistrati. Io credo nell’efficacia storica delle opposizioni extra-parlamentari, e sarei uno sciocco se ne contestassi la legittimità. Ma qui si tratta di comprenderne la natura. Per comprenderne la natura, mi permetto di fare qui due ipotesi di fondo.

In primo luogo, ribadisco il fatto (già bene analizzato da Gianfranco La Grassa) per cui il personale politico professionale dell’Ulivo, ancora più e meglio di quello del Polo, è quello preferibile e preferito dalle grandi oligarchie finanziarie internazionali che si stringono oggi intorno all’egemonia imperiale americana. Il personale politico del Polo, per la natura del blocco sociale ed elettorale che lo sostiene, è quello chiamato a fare il cosiddetto lavoro sporco, in particolare sulla flessibilizzazione del mercato del lavoro salariato, ma alla lunga potrebbe prestarsi al sospetto di autonomia e soprattutto di ascolto di fronte alle richieste destabilizzanti dei ceti medi nazionali impoveriti. L’Ulivo è dunque la prima scelta delle oligarchie, non la seconda. Il fatto che Dario Fo non lo capisca, ma creda di sostituire l’analisi politica con lo sberleffo verso Paperon de Paperoni, non cambia di un grammo la natura della questione.

In secondo luogo, credo che l’esule politico a Parigi, Oreste Scalzone, abbia capito l’essenziale della questione individuando il carattere corporativo, ed anzi angustamente e grettamente corporativo, della reazione girotondara dei cosiddetti intellettuali italiani. Nella prima repubblica (1948-1992) e poi in questo ultimo decennio di transizione (1992-2002), il potere economico e politico è andato al centro-destra (industria privata, sistema bancario e industria di Stato), ma il potere culturale è andato soprattutto al centro-sinistra. Non parlo ovviamente di cultura, che non ha etichette politiche di destra, centro e sinistra e soprattutto ha solo il potere della ragione e dell’emozione, ma solo di potere culturale, cioè del potere di disposizione, scelta, valorizzazione, distribuzione ed assegnazione di incarichi editoriali, universitari, giornalistici e televisivi. Questo potere culturale, sapientemente lottizzato fra il vecchio bacino degli intellettuali togliattiani e berlingueriani ed il bacino dei cosiddetti laici modernizzatori alla Eugenio Scalfari, è sempre stato feroce ed intollerante non certo e non solo con la cosiddetta destra, ma soprattutto verso i propri dissidenti ed eretici. Se mi si permette l’uso dell’odioso pronome personale io (che per Gadda restava giustamente il più odioso dei pronomi), io ne so qualcosa. La ferocia corporativa e l’intolleranza dell’establishment culturale di sinistra è immensamente superiore a quella di qualunque Berlusconi, Veneziani, Sgarbi, Cardini, Del Noce, eccetera. E questo, se proprio vogliamo tentarne una spiegazione filosofica più completa, deriva dal fatto che la cultura di sinistra italiana si è inserita nel quadro che ho definito del campo pluralistico amministrato (CPA) con la mentalità totalitaria e conformistica del flusso ideologico omogeneo (FIO). Chiedo scusa al lettore per l’uso di queste ridicole sigle, che mi è rimasto per abitudine per aver fatto parte alcuni secoli fa della scuola althusseriana, che le usava. Ma qui bisogna capire il nucleo del problema. Praticare il campo pluralistico amministrato con la mentalità del flusso ideologico omogeneo significa non dare nessuna importanza al contenuto ideologico del flusso stesso, che infatti cambia ed era prima lo storicismo togliattiano ed è oggi l’anti-berlusconismo, ma vuol dire non fare concessioni sul conformismo del politicamente corretto di identità e di appartenenza. Ed oggi questo conformismo è il giuramento elitario anti-berlusconiano. Questo è ciò che si deve capire.

6. Osservazioni conclusive.

È molto difficile riassumere in poche parole un atteggiamento complessivo sulla questione degli intellettuali, ma tenterò egualmente di farlo. Non propongo qui una teoria articolata (che ho accennata in un mio libretto intitolato Il ritorno del clero, CRT, Pistoia – 1999), ma solo una serie di “posizioni (per dirla ancora in linguaggio althusseriano), da offrire come contributo alla discussione.

In primo luogo, occorre relativizzare storicamente e contestualizzare politicamente le tre posizioni descritte dell’intellettuale organico, dell’intellettuale indipendente e dell’intellettuale impegnato. A mio avviso bisogna effettuare una sorta di sintesi non eclettica fra le tre, che danno luogo però ad una quarta figura. Brevemente, l’intellettuale si impegna non certo sulla base della propria organicità, e neppure sulla base di una semplice testimonianza di dissenso radicale, ma esclusivamente (e ripeto esclusivamente) sulla base della propria scoperta scientifica, della propria innovazione filosofica e della propria creatività artistica. Questo è il solo, e deve restare il solo parametro di giudizio. Ogni altro parametro è strumentale, ed è destinato ad essere utilizzato, strumentalizzato ed incorporato dagli apparati politici burocratizzati o dagli apparati mediatici oligarchicamente diretti dall’alto.

In secondo luogo, l’intellettuale non deve scegliere mai a priori fra lo schieramento e la solitudine. In certi casi è preferibile ed auspicabile lo schieramento, in altri casi diventa necessaria la scelta della solitudine. Non credo però alle solitudini testimoniali ostentate, che considero una forma di gratificazione narcisistica alla propria documentata impotenza. La solitudine deve essere considerata una scelta obbligata e sempre temporanea, anche se concretamente può purtroppo durare per cause contingenti una vita intera. Non bisogna mai dimenticare, con Aristotele, che l’intellettuale è sempre un animale sociale e politico, e non deve mai diventare un  lupo, un’aquila, un corvo, una iena, un elefante o un grillo parlante.

In terzo luogo, per finire, bisogna finirla con la corporazione degli intellettuali. Occorre tornare a praticare la razionalità del giudizio e la denuncia del cuore fra la gente. In questa mia considerazione non c’è nessun populismo, e nessuna attesa messianica. Si tratta solo di una posizione di principio.

Costanzo Preve

(“Indipendenza” n. 12 – giugno/luglio 2002)

La decadenza della falconeria.

Pelham Grenville Wodehouse, 1 – La decadenza della Falconeria, fa parte di: Id., Sports e passatempi, in: Id., Più forte e più allegro, Milano, Bietti, 1934, pp. 106-111.

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