Ditelo con un fiore – la letteratura al tempo dei social: mutamenti, analisi e tendenze

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di Pospero

Gli emoji e gli emoticon loro antenati sono arrivati una ventina d’anni fa nel mondo delle comunicazioni telematiche, prendendo spunto dagli indicatori meteorologici, dai caratteri ideografici cinesi, dai segnali stradali e dai simboli usati nei fumetti come la lampadina che si accende per indicare l’arrivo di un’idea, di un’ispirazione.[In effetti il più famoso emoji, la gialla faccina sorridente, è una creazione grafica risalente al 1963. [fig. 1] ] Gli studiosi li hanno chiamati anche cartoni stereotipati, segni non-verbali, artefatti di retorica visuale, icone paralinguistiche, logogrammi, ecc. Dieci anni dopo si ritrovano nell’iPhone e verso il 2010 raggiungono la massima diffusione. Nel frattempo il modo in cui a livello di massa si “consumano” i testi si va spostando sempre più sui supporti elettronici – soprattutto mobili come gli smartphone – a scapito della carta stampata. Così come il punto esclamativo è stato il segno di punteggiatura caratteristico della “Generazione X”, gli emoji hanno assunto la stessa importanza per i Millennials. [Secondo uno schema socio-demografico comunemente accettato, si definiscono Baby Boomers i nati tra il 1946 e il 1964; Generation X i nati tra il 1965 e il 1980; Millennials i nati tra il 1981 e il 1986 e Post-Millennials o Generation Z i nati dopo il 1997.] Ormai non si può più parlare di moda passeggera, l’uso degli emoji si è sufficientemente consolidato; nel 2015 il dizionario Oxford ne ha incluso uno, la “faccina che ride con le lacrime”. Piuttosto che ignorare la cosa e ostinarsi in formule “passatiste” e retrograde perdendo il rapporto con la realtà del proprio tempo, ci si può chiedere invece se e come governare il fenomeno senza venirne sopraffatti, contribuendo allo sviluppo dei suoi aspetti migliori e al contenimento degli altri.

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fig. 1 – Il grafico americano Harvey Ball con la sua creazione.

Abbiamo davanti tre ipotesi, non necessariamente alternative tra loro: in primo luogo, la presenza degli emoji nel testo aggiunge qualcosa entrando a far parte di una composizione multimodale basata su vari sistemi linguistici; nella lingua parlata ci sono il tono e le inflessioni di voce, le espressioni del viso e la gestualità quando ci si guarda mentre si sta comunicando; per esempio rispondere a denti stretti e aggrottando le ciglia «Sto bene», non significa forse l’esatto contrario di tali parole? Così scrivere «È successa una catastrofe!» aggiungendo alla fine l’antropomorfico smile🙂 o nella versione emoticon coi due punti, la lineetta e la parentesi tonda chiusa – può indicare il senso volutamente esagerato e semiserio della frase che dunque non è da prendersi alla lettera… o magari qualche tendenza psicopatica nel gioire delle umane disgrazie! Soprattutto quando si comunica tra sconosciuti, in mancanza di emoji chiarificatori si deve ricorrere maggiormente alla meta-comunicazione, ossia precisare con ulteriori parole il senso esatto di ciò che si sta esprimendo e indicare il proprio intento tra le alternative di sincerità, sarcasmo, senso ellittico ecc. Insomma, per tali motivi gli emoji sarebbero un benefico ausilio, tale da persuadere anche Platone che aveva forti riserve nei confronti della parola scritta, giudicata assolutamente inadeguata e insufficiente a trasmettere conoscenza in confronto al dialogo effettuato di presenza. In seconda ipotesi, gli emoji funzionano da sostituto per parole o intere frasi in forma sintetica a favore di una comunicazione resa stenografica per la fretta o la mancanza di spazio per scrivere; un po’ come le storpiature para-adolescenziali come “c6” e “xche”. [A tale proposito è da notare che alcune messaggerie da qualche tempo suggeriscono l’impiego di simboli al posto di frasi, come per esempio il pollice in su (👍) al posto di «ben fatto!»]. Se da una parte ci sono discorsi che diventano simboli, accade anche il processo inverso, laddove un simbolo assurge a significati complessi – chiamati meme – e in certi casi viene bandito o in qualche modo reso indesiderabile, come è accaduto nel caso della rana Pepe che secondo alcuni sarebbe un “simbolo dell’odio” che richiama idee razziste, antisemite e conservatrici. [fig. 2] La terza prospettiva contiene il rischio di una semplificazione eccessiva mediante gli emoji, che giunga a impoverire all’estremo la comunicazione facendoci retrocedere dalle parole ai “grugniti” primitivi o alle vocalizzazioni del cane e del gatto; sono scenari apocalittici, già prefigurati settant’anni fa dalla “neolingua” dell’orwelliano 1984 o da classici della fantascienza come Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. [Va anche detto che ci sono tanti modi per impoverire una lingua e – di conseguenza – chi la usa; per esempio l’impiego di termini stranieri in grande quantità o perfino di intere locuzioni e modi di dire abbreviati – “lol”, “imho”, … – importati da altre lingue.]

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fig. 2 – Pape the frog.

Poiché gli emoji sono divenuti compagni inseparabili della comunicazione scritta quotidiana, si pone il problema di una loro eventuale adozione anche in campi vicini come la narrativa, la saggistica ecc. Prima di tutto è da vedere se ci sono gli strumenti tecnici per fare ciò; nel mondo informatico parlare di scrittura e simboli richiama la questione dei caratteri, o font: ne esistono adatte allo scopo? Una scorciatoia talvolta utilizzata consiste negli emoticons che sono associazioni di segni tipografici per formare un insieme piuttosto limitato di rudimentali emoji o text faces, da “leggersi” con orientamento verticale o orizzontale a seconda dei casi. [fig. 3] Oppure si va a creare ex novo in forma di font una serie di emoji, con un assortimento di figure di gran lunga più ampio. [Attualmente esistono due font disponibili: “EmojiOne Color” e “Twitter Emoji Color”.] Altro importante aspetto da considerare è la costanza delle figure nel trasferimento del messaggio: bisogna essere certi che l’immagine scelta sul dispositivo mittente corrisponda nell’aspetto o almeno nel suo significato in modo inequivocabile a quella che verrà visualizzata dal destinatario nel suo apparecchio; pena la creazione di malintesi anche molto spiacevoli, come succede con le traduzioni sbagliate! Da questo punto di vista, una prova veloce sembra rispondere in modo rassicurante: l’emoji inserito in un testo scritto – per esempio – con LibreOfficeWriter sarà visualizzato correttamente riportando quel testo negli ambienti di WhatsApp o Messenger.

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fig. 3 – emoji ed emoticons.

I cambiamenti nel modo di scrivere si sono naturalmente estesi anche al mondo letterario; ci sono stati tentativi “estremi” – e forse inutili nella pratica quotidiana – come è il caso di Emoji Dick, reinterpretazione di Moby Dick uscita nel 2009 e già diventata un pezzo da collezione. [Nel libro ideato da Fred Benenson si è attuata la sostituzione completa del testo da parte degli emoji. [fig. 4] Appare fin da subito l’estrema difficoltà di ricavare un completo e univoco contenuto semantico a partire da una serie di simboli,  dato che rivela tutti i limiti del pur originale e bizzarro tentativo tanto che si è reso necessario l’affiancamento con il testo originale.] Altro esempio è Book from the Ground: From Point to Point di Xu Bing (2014), composto da soli elementi grafici selezionati dall’autore.[Il libro è sostanzialmente un’opera d’arte; l’autore ha detto «Vent’anni fa ho fatto Book from the Sky, un libro di caratteri cinesi illeggibili che nessuno poteva comprendere. Ora ho creato Book from the Ground, un libro che chiunque può leggere». Vi si racconta una giornata della vita di un impiegato, utilizzando solo simboli, icone e marchi della realtà contemporanea. [fig. 5] In questo caso si può notare come il notevole ampliamento del repertorio iconico utilizzato rende davvero possibile comprendere la storia, avvicinando l’opera al mondo della nona arte, il fumetto qui reso “muto”. Si arriva al settore dei silent book, come per esempio L’approdo di Shaun Tan, Cappuccetto Rosso Redux e Babylon di Danijel Žeželj, Prosopopus di Nicolas De Crécy.] Nel 2015 un misterioso autore sotto lo pseudonimo di YarnStore ha pubblicato un testo dal titolo The Book Written Entirely Out of Emojis. [Il “libro” di YarnStore non è stato stampato ma si trova nella piattaforma wattpad.com e mostra i limiti strutturali di questo esperimento: da una parte i soli emoji costituiscono un insieme troppo limitato per esprimere concetti chiari e soprattutto univoci nella decodifica da parte di chi legge; inoltre ogni dispositivo o programma di visualizzazione – Chrome, Firefox, Internet Explorer ora divenuto Microsoft Edge – mostrerà emoji diversi o anche degli enigmatici quadratini al loro posto, non disponendo del set di caratteri usato dall’autore, come si accennava in precedenza.]

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fig. 4 – Una pagina di Emoji Dick.

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fig. 5 – Una pagina di Book from the Ground.

Nel contesto italiano troviamo Ester Viola, che nel suo libro del 2016 L’amore è eterno finché non risponde – incentrato sul tema delle relazioni umane e degli scambi emotivi mediati dai social – ha scelto di includere nel testo la forma grafica delle chat, però senza gli emoji che abitualmente vi si accompagnano. [fig. 6] Ma siamo solo all’inizio; è passato oltre un secolo da quando romanzieri come Flaubert si opponevano categoricamente all’introduzione di figure nei propri libri, come veniva proposto dagli editori per aumentarne il successo commerciale. Trascorsi a grande velocità tanto il primo stadio – accesso – che il secondo – valutazione dei vantaggi funzionali rispetto al passato – si deve ancora completare la terza fase, quella in cui la familiarità con la nuova tecnologia la rende parte del discorso condiviso nella forma più comune in ogni tipo di contesto ben oltre gli ambiti dell’intimità amicale o di coppia. Già per effetto dell’utilizzo degli emoji è venuta meno la differenza di genere riguardante la minore quantità di contenuti emotivi nella comunicazione interpersonale maschile rispetto a quella femminile; sembra perfino che rispetto alle telefonate, alle lettere, alle email ecc. l’arrivo degli emoji abbia travalicato i limiti strutturali della scrittura costruendo un inedito spazio di comunicazione iperpersonale. Il mondo del marketing sta esplorando ogni uso commerciale degli emoji come veicolo pubblicitario; cosa succederà quando anche le Istituzioni li adotteranno, rompendo lo schema del registro linguistico formale che ancora prevale nelle comunicazioni tra colleghi o verso i gradi gerarchici superiori? O quando i poeti inizieranno a mettere questi disegnini tra i loro versi, oppure quando i vari influencers vorranno raccogliere in volume il corpus dei propri scritti, costituiti da migliaia di post quasi sempre infarciti di emoji di ogni genere, da scorrere senza intervalli di pagina come un rotolo di papiro? Sarà un bel problema, un po’ come la menzione di un meme virale che a suo tempo si dimostrò molto efficace nel definire e valutare una situazione, un evento, un personaggio. [fig. 7] In questi casi l’unica strada che appare percorribile – almeno per ora – è la foto della schermata fedelmente riprodotta, perché tentare di descrivere a parole questo genere di cose sarebbe un’impresa ardua e forse impossibile da compiere: la foto, più la frase inclusa, più il taglio di inquadratura o l’eventuale fotoritocco in sovrappiù… contro tre nemmeno Ercole ce la fa!

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fig. 6 – Una pagina di L’amore è eterno finché non risponde.

 

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fig. 7 – Una delle infinite varianti del meme “Fidanzato distratto”.

Questa baraonda di frammenti disordinati sta già producendo una controreazione: la tendenza di mercato del “libro grosso” sembra rivelare il bisogno di radicarsi nella continuità raccontando vite per intero; anche in modo prolisso come facevano i vecchi romanzi, che in effetti sono ben più moderni e progrediti dei pittogrammi cavernicoli o dei geroglifici digitali che ci siamo abituati a usare ogni giorno.

 

 

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