Profilo di Shakespeare.

Pelham Grenville Wodehouse, 3 – Il profilo di Shakespeare, fa parte di: Id., Attorno e intorno al teatro, in: Id., Più forte e più allegro, Milano, Bietti, 1934, pp. 89-102.

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Ricorrendo quest’anno l’anniversario della nascita di Shakespeare non credo cosa inutile parlare brevemente di questo grande scrittore (o, come alcuni dicono, di questo famoso sindacato letterario). E quando dico Shakespeare mettetevi bene in mente che so benissimo che poteva chiamarsi Shakspere od anche Shikspure. Sono padrone dell’argomento.
Come ho accennato più sopra, ci sono due scuole nettamente divise che riguardano Shakespeare. La scuola più numerosa onora in lui l’autore delle commedie che portano il suo nome e concludono col dire in modo reciso che gli altri possono restare con i loro dubbi, ma che egli è uno scrittore indipendente. E bisogna riconoscere che nulla potrebbe essere più giusto.
Ma come in tutti i trattenimenti di prestidigitazione c’è sempre una parte dell’estrema sinistra che mormora: «Lo aveva dentro alla manica!», così in questa faccenda delle commedie di Shakespeare c’è una minoranza cavillosa che sostiene che [inizio p. 89] le commedie non le ha scritte lui, ma che ha prestato il suo nome a una società anonima composta di Sir Francis Bacon, Sir Walter Raleigh, il Conte d’Oxford, il Conte di Essex, la Regina Elisabetta, il signor Gordon Selfridge, e la seconda ragazza, a cominciare di fondo, della prima fila delle chorus-girls della Compagnia Viaggiante N. 1 della Vedova Allegra.
Essi sostengono che tutto il lavoro di Shakespeare si limitava a tracciare la sua firma sulle copertine delle copie dattilografate. Tutt’al più, essi dicono, egli correggeva i lavori. A sostegno di questa tesi, un Baconiano di mia conoscenza racconta una storiella, che egli dice severamente documentata. Peccato che quei documenti sieno in una scrittura cifrata che nessuno, all’infuori di lui, può leggere.
Pare, secondo quest’individuo, che Bacone, conosciuto dal pubblico di allora come l’autore di due lavoretti leggeri intitolati The Novum Organum e De Interpretatione Naturae, avesse la ferma convinzione che egli avrebbe saputo scrivere una bellissima commedia. Insomma era un sognatore. Non lo siamo tutti? Così, negli intervalli di cui poteva disporre allo Scacchiere (di cui era, non lo dimentichiamo, il geniale e popolare cancelliere) egli si sedeva con la sua penna d’oca e il suo calamaio di corno e buttava giù una tragedia chiamata Amleto. Poi cominciò a mandarla in giro per farla leggere ai direttori.
[inizio p. 91] Il primo la tenne sei mesi, e quando Bacone scrisse per riaverla, gli rimandò una commedia burlesca di un altro signore, scusandosi, benché gli fosse piaciuta molto, di non potere ritrovare la sua tragedia.
Bacone sospirò e ne mandò un’altra copia a un altro direttore.
Trascorso un anno, scrisse, chiedendo scusa per la sua impazienza, domandando se era stata presa nessuna decisione per il suo dramma Amleto. Alcuni giorni dopo ricevette il suo manoscritto e una lettera del segretario del direttore in cui si diceva che doveva esserci stato qualche errore perché alla direzione non era mai pervenuto uno scritto con quel titolo.
Ormai Bacone aveva cominciato ad accorgersi, come tanti altri hanno fatto dopo, che le cose teatrali sono sempre accompagnate da una specie di allegro delirio, combinato con quello che può accadere nelle case di riposo per i deboli di mente. Aveva appena deciso di abbandonare il tentativo e mettersi a scrivere un altro volume di saggi, quando ad un tratto un direttore che aveva il manoscritto da tre anni, tanto che se l’era dimenticato (Bacone, s’intende!) gli scrisse di andare da lui. Dopo avere aspettato quattro ore nella prima stanza, in mezzo a una folla di uomini dal mento turchiniccio, che si raccontavano come, con la loro prontezza di spirito avessero salvato lo spettacolo [inizio p. 92] quando erano nella Compagnia del Conte di Worcester, egli fu introdotto.
– Dunque, signor Vattelapesca – disse il direttore, – quest’Amleto… bisogna cambiare il titolo, ma può andare: c’è del buono! Ma occorre fare qualcosa… fissarlo insomma.
– Fissarlo?
– Non si può rappresentarlo così com’è. Il pubblico non lo starebbe a sentire. Siete nuovo del mestiere, non è vero?
Bacone mormorò qualche parola per dire che aveva scritto qualcosa.
– Commedie?
– Saggi.
– Saggi! – esclamò il direttore con un sorrisetto. – Dunque, come vi ho detto, bisogna fissare il lavoro, e la persona adatta è Shakespeare, un bravo ragazzo che fa parte della mia compagnia. Lo raddrizzerà alla svelta. Parliamo delle condizioni: avrete l’uno per cento sull’incasso totale.
Bacone, che come Cancelliere dello Scacchiere, era molto bravo nelle matematiche, protestò dicendo che l’uno per cento non era molto.
– Bellezza mia, – disse il direttore, – non cominciate ad aprire troppo la bocca, come tutti gli altri. Quando siete entrato nel mio ufficio, ho detto fra me: «Ecco un giovanotto intelligente ed equilibrato, che non chiederà la luna». Non vorrete ch’io sia costretto a mutare la mia opinione? Oh, [inizio p. 93], no! non lo vorrete! Con l’uno per cento, mettereste insieme un bel gruzzolo, ve lo dico io! Firmate qui.
Bacone, c’era furbo, capì che non gli restava altro da fare.
Nei circoli teatrali era diffusa la superstizione che ci fosse una specie di magia nella faccenda dello scrivere lavori per il teatro e che nessuno poteva penetrare nei misteri di quella soprannaturale abilità se non faceva parte di una di quelle piccole consorterie che passavano il loro tempo nella Taverna della Sirena facendo acquisti per il direttore.
Bacone cedette. Sapeva che il suo Amleto era buono, ma ormai aveva capito che non avrebbe potuto farlo rappresentare se non lo lasciava nelle mani di uno di quegli uomini che erano «da vent’anni negli affari teatrali» perché lo facessero in pezzi. Perciò firmò il contratto e il direttore mandò a chiamare Shakespeare alla Taverna della Sirena.
Due giorni dopo fecero colazione insieme in quell’osteria. Shakespeare aveva con sé il manoscritto, e appena finito di mangiare cavò fuori un fascio di appunti.
– Dunque, ragazzo, – disse Shakespeare, – ho letto la vostra cosetta, e credo di poterne cavar fuori qualcosa. Ma bisogna lavorarci. Prima di tutto, la fine è debole. Quando il sipario cala, è necessario che i personaggi si scaglino uno addosso all’altro e che si ammazzino tutti. Bisogna che il Re avveleni il vino, che Laerte avveleni la spada; poi Laerte infila Amleto con la spada e la [inizio p. 94] lascia cadere e Amleto la prende, credendo che sia la sua e infilza Laerte; allora la Regina beve il vino e Amleto colpisce il Re con la spada avvelenata. Soltanto così si può ottenere qualcosa.
– Benone! – disse il direttore.
– Ma, – ribatté Bacone, – tuttociò non è un poco inverosimile?
– È quello che vuole il pubblico, – disse Shakespeare freddamente. – Credete che non lo sappia?
– Ma lo sa certo che lo sapete, caro Guglielmino, – intervenne il direttore per calmare gli animi. – Non inquietatevi! Lavoriamo tutti per il bene dello spettacolo. C’è nient’altro?
– Se c’è nient’altro! – Esclamò Shakespeare. – No, non c’è nient’altro, c’è qualcos’altro. Prima di tutto il suo eroe è un pazzo.
– Le sofferenze gli hanno fatto perdere la ragione, – disse Bacone.
– Non permetterò che le sue sofferenze abbiano nulla a che fare con la tragedia, – ribatté Shakespeare. – Sentite, io mi occoupo di teatro da…
– Va bene, Guglielmino, va bene! – disse il direttore battendogli sul braccio. – Il signor Bacone non discute. Vedete, signor Bacone, – egli seguitò con modo blando, – bisogna pensare alla rappresentazione diurna per le ragazze: le ragazze che vengono alle rappresentazioni diurne, non amano i bricconi. Bisogna guardare la cosa [inizio p. 95] sotto tutti i punti di vista. Allora, Guglielmino, non lo lascerete pazzo?
– Farò qualcosa di meglio, – disse Shakespeare. Egli fingerà di essere pazzo. Tutti resteranno ingannati tranne il pubblico.
– Ve lo avevo detto che questo ragazzo era un portento, – mormorò il direttore a Bacone, che era diventato pallido e borbottava qualcosa fra sé.
– Così diventerà quasi una commedia, – disse Shakespeare.
– È vero! – disse il direttore. – Sapete che cosa farà Guglielmino per accontentarvi? Farà pazza Ofelia, e tutto andrà bene. Al pubblico non importa se una fanciulla è pazza.
– Tutte le fanciule sono pazze, – disse Shakespeare, piuttosto di cattivo umore, come se ciò gli avesse ricordato un qualche dolore segreto. – Ma per ritornare al mio punto di vista comico, scriverò una scena in cui Amleto gabba i due studiosi.
– Sarà una bellezza, – disse il direttore. – Faremo affaroni la sera delle regate.
Shakespeare aggrottò la fronte, rigirando i suoi appunti.
– «Essere o non essere…» – mormorò. – Sto pensando a questo discorso sull’ «Essere o non essere». Al pubblico non piacciono i soliloqui.
Bacone si risentì sul serio.
– No, eh? – egli disse.
[inizio p. 96] – No! – disse Shakespeare.
– Lo dite voi! – disse Bacone.
– Sì, lo dico io! – ribatté Shakespeare.
– E cosa ne dite di Eugenio O’ Neill? – disse Bacone.
– Di Eugenio O’ Neill non c’è niente da dire, – rispose Shakespeare. – Quegli Americani sanno far tutto.
– Via, via, ragazzi! – si raccomandò il direttore. – Non vi eccitate per questo. Ho letto anch’io quel discorso, ed ho visto che dà modo ai macchinisti di preparare la scena dietro al telone. Credo che si potrà lasciarlo.
– Benissimo, – disse Shakespeare. – Ma se deve restare, bisognerà allungarlo. Ci aggiungerò io una linea o due. Come andrebbe, per esempio, questa? «O prendere le armi contro un mare di guai?». Mi è passata per la mente ora, come un baleno.
– Non si può prendere le armi contro un mare, – disse Bacone. – È una metafora mista.
– Chi lo dice chè una metafora mista?
– Lo dico io.
– Ragazzi! – disse il direttore.
– Oh, metteteci pure quella linea, mettetecela pure, – disse Bacone alzandosi.
– Ve ne andate, signor Bacone? – chiese il direttore.
– Sì, – disse Bacone. – Vado a prendere due aspirine per vedere se posso dimenticare.
[inizio p. 97] E non assisté alla prima dell’Amleto né alle rappresentazioni successive.
Questa è la storia che racconta il mio conoscente Baconiano; e quando gli chiesi come mai non fosse arrivata fino a noi nessuna notizia sulla collaborazione di Bacone nel grande dramma, egli aveva la sua risposta anche a questo.
Shakespeare, egli dice, gli propose di stampare i programmi così:

AMLETO

di

GUGLIELMO SHAKESPEARE

e
Francesco Bacone

ma Bacone, dopo aver assistito alla prima prova e aver letto le correzioni fatte al manoscritto, non volle che il suo nome avesse nulla a che vedere con quella produzione.
Come ho detto, questo è quello che pensa molta gente di Shakespeare e della sua pretesa di essere il primo scrittore del mondo, ma io, personalmente, non sono di questo parere: io preferisco credere a quest’altra storia, ch’è accettata dai più di cui eccovi un estratto.
Il Bardo di Avon nacque nel 1564 e fu battezzato il 26 di aprile. Egli non rivolse subito la sua attenzione al dramma. Pare che durante la sua fanciullezza egli fosse convinto che si poteva benissimo guadagnarsi la vita rubando i conigli [inizio p. 98] dalle riserve dei ricchi possidenti; e fu soltanto quando cominciò ad avere l’età della… discrezione che gli passò ad un tratto per la mente l’idea che gli avrebbe reso di più rubare intrecci. Nell’anno 1591 cominciò a scrivere le sue produzioni teatrali, e da allora in poi, chiunque avesse un buon intreccio, lo metteva in una cassa fasciata d’acciaio e chiudeva il coperchio, quando Shakespeare si avvicinava.
Il giovanotto aveva delle attenuanti: era il drammaturgo ufficiale di una compagnia di attori e lo facevano lavorare tanto che non aveva il tempo materiale di pensare da sé ai suoi intrecci. In quei giorni era già un successo se una rappresentazione si ripeteva due sere; se le superava, bisognava dire che lo spettacolo era sensazionale. Quindi Shakespeare abbozzava Macbeth la domenica perché andasse in scena il lunedì. Il martedì mattina alle sei arrivava Burbage in uno stato di agitazione indescrivibile.
– In nome del cielo, Guglielmo! Perché non siete ancora alzato e al lavoro? Non sapete che stasera bisogna dare qualcosa.
– Ma non c’è Macbeth? – chiede Shakespeare fra il sonno.
Macbeth ha finito il suo lungo e fortunato corso ieri sera e se non avete niente per poter andare avanti saremo costretti a chiudere il teatro.
Allora Shakespeare si alzava da letto, frugava nella cassa dove teneva gl’intrecci… degli altri, [inizio p. 99] e verso l’ora di colazione consegnava a Burbage il manoscritto dell’Otello. E Burbage gli dava una scorsa, capiva che era una porcheria, ma bisognava darlo ugualmente.
Un autore drammatico non può dar prova della sua abilità in queste condizioni, e ciò, a mio modo di vedere, spiega una peculiarità dei lavori di Shakespeare, che credo, è sfuggita ai critici. Il fatto, cioè, che mentre la sua prosa suona bene, di solito non significa nulla. È indubitato che quando Guglielmo Shakespeare era alle prese con la ristrettezza del tempo, buttava giù qualunque cosa fidando nella carità del pubblico per essere aiutato. Burbage era lì ogni due minuti a chiedergli quando mai fosse finito quel manoscritto, e quindi egli buttava giù la prima cosa che gli passava per la testa.
– Che cosa significa «abroach» [nota: giuoco di parole su: a brooch (una spilla) e abroach, riaccendere, rinfocolare etc.] chiedeva Burbage, stupito, sospendendo la prova di Romeo e Giulietta.
– È un oggetto che portano le ragazze, – diceva Shakespeare. Sapete?… Quella cosa fatta di diamanti che si ferma con uno spillo.
– Ma qui dice: «Chi ha riacceso la vecchia lite?» A me pare che non ci sia senso.
– Oh, tutto sta nel modo di recitare, – diceva Shakespeare. – Pronunziate quella frase rapidamente e nessuno si accorgerà di nulla.
[inizio p. 100] E così si andava avanti, finché cominciarono a provare Pericle Principe di Tiro. Il lavoro era così pieno di vocaboli il cui senso era ignoto agli attori che il povero Shakespeare doveva fare un grande sforzo per dare delle spiegazioni più o meno plausibili. Egli andava poi alla taverna della sirena e scherzava con gli amici, dicendo che i primi cinquecento anni erano più difficili, ed altre cose del genere, ma certo doveva stancarsi.
Perciò, se rubava gl’intrecci, buon pro’ gli faccia, dico io.
Certamente Shakespeare dovette lottare contro tutte le difficoltà che ostacolano coloro che cominciano a dedicarsi alla professione di scrittori drammatici. La tradizione dice che egli cominciò col reggere i cavalli davanti alla porta del teatro. Si potrebbe dipingere un quadro storico molto commovente in cui si vedesse il futuro Re del palcoscenico inglese che tenta di leggere a Burbage che passa in fretta per andare alla “Sirena” la prima scena di una sua commedia, mentre tenta di allontanare un focoso destriero che vuole morderlo alla nuca.
Ma finalmente il suo valore fu riconosciuto e il nostro eroe entrò a far parte di una compagnia di Londra. Poco tempo dopo, i suoi lavori cominciarono ad essere accettati. La sua carriera non fu tutta cosparsa di rose: appena riescito a prender piede (cominciava a contare a quanto sarebbero ammontati i suoi diritti d’autore il sabato sera) [inizio p. 101] scoppiò la peste e fin dal principio del febbraio 1593 i teatri furono chiusi. Egli scrisse Tito Andronico che fu rappresentato nel 1594, quando scoppiò di nuovo la peste e i teatri vennero di nuovo chiusi.
Ma un uomo di valore non si lascia abbattere e Shakespeare, che aveva già cominciato a rubare i suoi intrecci, cominciò a produrre una serie di drammi senza nessuno sforzo. Quando il teatro si riaprì egli aveva pronti alcuni lavori e la Bisbetica domata e Romeo e Giulietta furono rappresentati dentro l’anno.
Del suo primo lavoro poco si sa, ma poiché si dice che sia stato scritto in collaborazione con Marlowe, Green e Peele è facile supporre che si trattasse di una commedia musicale. Certamente Shakespeare scrisse la trama originale, Marlowe vi aggiunse alcune scene e Peele v’inserì qualche altra cosa. Pare che il lavoro non avesse un gran successo, cosa che confermò il fatto indiscutibile che non c’è speranza che una produzione di questo genere riesca se non vi prendono parte Leslie Henson e Heather Thatcher.

La vita privata e la carriera artistica di Guglielmo Shakespeare sono circondate dal mistero. Pare che nessuno sappia come passava il tempo, dove abitava, chi aveva sposato né qual’era il suo aspetto. Si crede, generalmente, che avesse sposato Anna Hathaway, ma in un registro, che ancora [inizio p. 102] esiste, c’è un’annotazione che parla delle nozze di «Guglielmo Shakespeare» con «Annam Whately di Temple Grafton». Si potrebbe supporre che lo scrivano, come lo sposo, fosse un po’ debole in ortografia e che quello fosse il suo tentativo coraggioso ma poco riuscito, per scrivere «Anna Hathaway». E, per quei tempi, non ci sarebbe stato male!
Per quanto si riferisce al suo aspetto, ci sono sedici suoi ritratti in un certo libro che raccoglie notizie su Shakespeare, libro verso il quale ho un debito di riconoscenza. Ma quei ritratti sono completamente diversi uno dall’altro e s’accordano in un punto solo: egli non si faceva la barba!
Certo doveva essere difficile fare il ritratto a Shakespeare: egli correva dal palcoscenico dove recitava, alla scrivania di Burbage (posta in una stanza sulla cui porta era scritto «Proibito l’ingresso») per lavorare a un dramma nuovo, e l’unico modo di poterlo vedere bene era di guardarlo dal buco della chiave.
È anche possibile che, assorbito com’era dal lavoro, si fosse dipinto da sé per corrispondenza: può essere stato costretto a limitarsi, alla descrizione del suo aspetto fatta per lettera, lasciando il resto all’ingenuità dell’artista.

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[trascrizione a cura di Leone Venticinque]

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